martedì 27 marzo 2012

i presidenti

Personaggi che occupano spazi limitati, si occupano di fondi, di amministrare la conservazione di se stessi, in un continuo equilibrismo; uomini avviluppati attorno a un bene, a una deformazione che ogni giorno si fa parossismo; la normalità dell'aberrazione. In Italia, i nostri personaggi camminano lentamente. Passano il loro tempo prevalentemente dentro uffici ricavati in palazzi e residenze di lusso, si dilettano in passatempi oscuri, privi di una vera funzione, di un lavoro, di un'occupazione.  personaggi cardine della nostra storia di paese azzeccato, delle piccole vicende locali, si muovono in spazi routinari, abitudinari, ripetono gesti, si sacrificano per una missione inesistente. I nostri sofisti gestiscono patrimoni, li fanno lievitare, rendere, o fanno rendere dei debiti, gabbando lo stato e se stessi. I nostri uomini, omuncoli, saranno presto dimenticati. La loro assenza è stata una veglia, una guardia, sentinelle di averi e di pseudosaperi. Cosa fanno tutto il giorno? Hanno degli interessi? Forse collezionano opere d'arte? O sedie in pelle? Macchine da scrivere antiche? Forse amano i convegni. Ne scelgono uno al giorno a cui partecipare. Sono assidui frequentatori delle accademie, delle associazioni di categorie più impensabili, fanno interventi, domande. Forse leggono i giornali e fanno i presidenti. Nel paese dei presidenti, i presidenti fanno i presidenti. Affondano nella carica e nel ruolo che ne deriva. Essere a disposizione. Risolvere i problemi, anche quando questi non ci sono. Quando la categoria è in via di estinzione. Cosa fanno i presidenti? Presiedono. Siedono, prima e dopo. Durante. Si presiedono e si prealzano. è una seduta preventiva. Salace. Audace. I presidenti assumomo in sé ogni responsabilità. Si responsabilizzano e nei giorni e nelle ore di quiete e di assenza di ogni questione possibile, esistono. Cosa fa un pilone? Cosa fa un architrave? Regge. Sta. E in questa apparente stasi che è una resistenza prodigiosa, l'uomo, il primo attore, il presidente dell'ente di turno, si spertica in sgangherate elucubrazioni sul senso e la motivazione della propria stessa esistenza. Si dice, io ci sono, servo, sono utile e utilizzo. Ma è un attimo. Poi torna alla sua penombra di pace e di lunga, imperterrita linea piatta. Perché rovinare tutto con delle domande? Quello che c'è va tenuto. Conservato. Alimentato. è il nostro protagonista inconsapevole. Il nostro vecchio presidente dai percorsi scontati. Cosa resterà di lui...?

venerdì 23 marzo 2012

la forza dell'autoinganno

C'era una volta una favola che raccontava di quanto fosse bello viaggiare con la fantasia nei mondi incantati delle storie di fate e maghi e gnomi e immensi boschi pieni di alberi antropomorfi in cui un protagonista maschile rincorreva il sogno di una protagonista femminile bella e principesca, come lui, piena di sogni e di chimere, sempre come lui, rinchiusa nell'altissima torre di un castello appartenuto a una donna crudele, una strega cattiva, o addormentata a causa di un incantesimo, o mascherata da serva o comunque tenuta a distanza da un qualsiasi incontro incantato per la gelosia e il puro gusto della crudeltà di una vecchia, del fratello avido di un re morto da poco, di un cugino vicerè ingobbito e cieco, di una massa di servitori armati senza nerbo né voce in capitolo, e questo giovane aitante, luminoso e prestante, doveva superare delle prove, di solito tre, uccidere draghi, scalare montagne, liberare dalle catene un popolo tenuto prigioniero da gnomi demoniaci in un mondo sotterraneo di cave di diamanti o di argento, uccidere una fiera possente, come ercole, liberare da una roccia una spada, spostare un monte, prosciugare un mare, risolvere un arzigogolato e cervellotico enigma scritto di pugno da una vecchia megera che di lì a poco sarebbe morta davanti al fuoco che aveva sorvegliato una vita intera, una pizia complicata e capricciosa, alla Dürrenmatt; trasportare massi da un posto all'altro e ritorno per giorni e settimane, senza un'apparente logica se non dimostrare perseveranza e carattere, e l'amore che arde e alimenta il cuore e le braccia di ogni principe degno della sua amata.
C'era una volta una storia, che si raccontava prima di andare tra le braccia di Morfeo, prima di lasciarsi alle spalle il giorno passato e anche prima di abbandonarsi alle tenebre e ai sogni che invadono a loro piacimento il campo sgombro del riposo. C'era una volta un raccontatore. A cui nessuno aveva mai usato la gentilezza di accompagnare il passaggio con voce soffusa e profonda; e si era sempre tuffato nella notte solo come soltanto un eroe solitario può essere; come chiunque abbia una missione importante, un compito, una promessa da mantenere con nervi saldi e volto proteso verso l'avvenire; di quegli incarichi di cui si sente parlare solo nelle fiabe e che ai nostri giorni fanno tremare le braccia e sudare i palmi delle mani anche all'adolescente più spavaldo e disinvolto. C'era una volta un uomo solo, che rincorreva il suo sogno d'amore e a cui nessuno aveva mai raccontato il finale della sua novella, la fiaba di cui era stato deciso che fosse il protagonista, perché certi assegnamenti vengono dati in automatico, seguendo una stella, un segnale della natura, il volo di un calabrone, di una piuma d'oca, il cambio repentino del clima, il belare indistinto di un gregge di pecore che diventa lamento o quasi esultanza, lo scricchiolio di una roccia, il crepitare dei rami dell'olmo, l'albero delle esecuzioni capitali; c'era una volta un'illusione di eternità. C'era una volta la speranza di una levità. C'era, e c'è ancora, il crampo addominale nel sentir pronunciare un certo nome, nel vedere il suo lembo della veste, odorare un profumo che la ricorda e sorridere quasi soddisfatti al solo rivedersi insieme a lei, uniti per le mani, o per una sottile linea invisibile che riduce ogni distanza. 

C'era una volta una storia, illuso, povero meschino, che raccontava di una meta irragiungibile se non da chi era pronto a sacrificare ogni cosa, possedimenti, ragione, vesti, amici, lavoro, casa, crediti e convinzioni, per spogliarsi di tutto e dimostrare la purezza intrinseca del proprio desiderio. C'era da scommettere che una volta avremmo anche incontrato, se ci fossimo addentrati in questo orizzonte, un tranello, un inghippo, un ladro di vestimenti, un piccolo scippatore notturno, un bimbo sornione e viziato, una pupetta stramba, mascolina, chiassosa, una leccornia per i pervertiti, una gioia mattutina, pronta a portarvi via anche i peli del pube se ne avesse potuto ricavare qualcosa in moneta o in natura per svoltare la giornata. C'era dietro l'angolo una svolta. Quell'unica volta in cui il nostro eroe si rese conto di aver sbagliato fiaba. Di aver sbagliato principessa. Di essersi proiettato nella mente, nella testa, nei suoi abbagli di eroe cieco e battagliero, una sequenza non veritiera ed essersi imbattuto in una donna come tante, fragile, mutevole, insicura, dubbiosa, nei sentimenti parsimoniosa se non riluttante, guardinga, forse troppo per essere la donna da cui farsi gettare nella mischia, nel fango per dimostrare la forza che alimenta la fornace della sua passione illimitata. Ci sarebbe da reclamare contro questo disguido. Questa deviazione dalla via, retta o tortuosa che fosse. Ci sarebbe da urlare al destino malvagio, ghignante, sarcastica imitazione di Madre Natura, la chioccia che tutto dà e niente pretende in cambio, generosa matrona che veglia sulla nostra schiusa. C'è da dire che una volta preso l'abbaglio e recuperata la vista, il nostro eroe più non è il determinato segugio della sua predestinata. Comincia a guardarsi attorno. Magari inizia a ragionare. Si pone delle domande. Mette in discussione il suo ruolo di primo attore. E potrebbe dimettersi, lasciare tutto e percorrere una strada più semplice. Senza satiri e saltimbanchi, nani e saltimbanchi, incantesimi e animali parlanti, trasformazioni o decadimenti. La via più umana. Più banale e scontata. Quella che tutti abbiamo davanti agli occhi. La via degli occhi che guardano e non più creano. 
C'era una volta, una volta che segnò la svolta. E più non fu facile raccontare la fiaba che incornicia tutti gli amori del mondo in un unico quadro sublime e perfetto. Fu da allora che ogni amore iniziò a raccontarsi da sé. E ogni eroe era eroe soltanto per sé. Fu quello il momento in cui ogni amore, ogni fiaba divenne milioni, miliardi di storie d'amore e di fiabe, e le bocche che le raccontavano, ogni giorno raccontavano di un nuovo eroe e di una nuova eroina, di eroi ed eroine uniti e divisi, mescolati, raggirati, amati, traditi e felici , solo e soltanto per quello che la felicità era, finalmente o purtroppo, ormai diventata.

sabato 17 marzo 2012

Pausa

è con sollievo e mestizia che raccolse le sue cose e le infilò in una borsa da tennis appartenuta a suo zio. un cimelio, di quando le racchette erano in legno e forse era arrivata la lega in carbonio. qualcuno azzardava a tirare le corde in budello animale fino a 30 o 31 chili, imitando un biondo scandinavo freddo e calcolatore, senza impeti fantasiosi, che per spirito di contraddizione, molto frequente in quei paesi dall'apparenza monolitica, sposò una cantante mediterranea dai modi bruschi, senza fronzoli, dagli acuti rochi e la fame di sesso insaziabile. l'aria era tiepida e tersa. chiuse la finestra d'istinto, anche se non avrebbe più abitato lì per un pezzo, forse per sempre; più probabilmente, finché la sorella non fosse morta senza un testamento a suo sfavore. ma la speranza si nutre di piccoli frammenti di realtà, sparsi qui e là, e da fantasie lasciate correre a briglie sciolte. l'amore fraterno non poteva reggere quella convivenza. Ho bisogno di una pausa. dei miei spazi. Ho bisogno di ritrovarmi. e anche di un'intimità e di una privacy, cazzo. Glielo disse di schiena, lavando i piatti a mano, in quell'appartamento mezzo vuoto, senza quasi tracce di tecnologia e di terzo millennio. un discorso che avrebbe meritato ben altre modalità. prendendo i suoi pochi stracci si rese conto di quanto si fosse ridotto all'osso il suo vestiario. di quanta poca attenzione avesse dedicato al suo aspetto esteriore, nonostante il lavoro che faceva. se lo faceva ancora. mentre svuotava i cassetti e l'armadio i capi andavano a gonfiare il bustone nero della spazzatura, più che la borsa, la quale, lo avrebbe notato successivamente, aveva ancora negli angoli interni e nelle tasche laterali qualche granello di terra rossa. piccoli retaggi di tornei open vinti in tutta Italia. suo zio non aveva mai partecipato. aveva solo vinto. sceglieva quei tornei nei quali era sicuro di vincere. così diceva. non si capì mai se per un eccesso di modestia o per calcolo. la fitta più acuta la sentì al momento di tirare giù le sue amate stampe di una città che non esisteva più, scattate da fotografi morti da almeno trent'anni. l'impronta lasciata da anni di deposito di pulviscono rendeva vividamente l'idea della sua temporaneità. puoi portarti via metà di tutti gli oggetti. quelli appartengono anche a te. lo aveva lasciato libero di scegliere. magnanima. lui aveva sperperatotutta l'eredità ed era anche stato sfortunato con quegli investimenti sicuri che avevano gettato nel fango e nel lastrico tante famiglie in buona fede, allettate da una rendita di cui non conoscevano la provenienza, se da derivati greci o da operazioni temerarie e ciniche nel terzo e quarto mondo. era stato il consiglio di un conoscente dal nome solido e integerrimo. di quelli che nessuno penserebbe possano fare gesti azzardati. persone che tutti seguono con fiducia, a occhi chiusi, convinti che ogni passo avrà sempre sotto un terreno solido a sorreggere il piede. la vita non ha tempo per spiegare a tutti gli illusi come fare ad aprire gli occhi prima di farsi del male. spesso preferisce le scorciatoie e una ironia un po' tagliente. prese gli occhiali. li inforcò e portò l'ultimo scatolone nell'ingresso. a momenti sarebbero arrivati i trasportatori. direzione easybox. si ripeteva che sarebbe stato temporaneo. ma il fatto che non avesse dove andare e che il lavoro ormai era quasi un lontano ricordo, tutto questo non tramava a suo favore. i pochi risparmi li aveva già ritirati. il conto in bianco estinto. la macchina venduta a un frascatano al mercato delle auto usate sulla via aurelia. una trattativa rapida e sfavorevole. cinque mila. no, troppo. gliene do al massimo tremilacinquecento. non aveva mai saputo opporsi alle persone sicure di sé. era facilmente influenzabile da quella decisione. tremila e cinque, ok. era tornato poi a casa a piedi con quei soldi sparsi in varie tasche. residuo di una oculatezza che presto l'avrebbe abbandonato del tutto. suonò il citofono. mancavano pochi minuti alla fine di una vita. la rottura definitva di un legame familiare. e si sorprese a pensare a quanti passi avrebbe ancora potuto fare con le sue diesel vecchie di dieci anni, prima che si aprissero a cercare miglior fortuna in un cassonetto differenziato. qualche milione. poi, cercò di programmare la sua giornata. box, bar, parco. è il luogo migliore dove finire, quando non si ha più niente da cercare. mescolati ai fissati con la linea e il dinamismo, i soli cronici con i loro animali a passeggio e mamme di ogni provenienza con figli al guinzaglio. la stranezza di certe contraddizioni. avrebbe controllato un'ultima volta la sparizione dai giornali degli annunci di offerte di lavoro. all'aperto, tra la gente. per avere dei testimoni. e avrebbe mangiato da Ridolini. un bistrot in stile francese del quale il proprietario gli aveva spiegato la scelta del nome, cosa che non ricordava più, e che aveva il merito di ospitare ogni settimana un resident chef giovane dal paese dei cosiddetti cugini transalpini. non sapeva se era pronto ad abbandonarsi alla corrente. come una medusa. ma l'arrivo di due energumeni bulgari con tanto di tatuaggio speculare sul braccio, lo portò dentro al vortice che di lì a poco lo avrebbe dissipato e fatto dimenticare. ciao, eh. vedrai che te la caverai. te la sei sempre cavata bene. buona fortuna. e altre facezie del genere. l'ultimo suono di una voce familiare diretto intenzionalmente a lui. si alzò dalla valigia in finta pelle e guidò i due barbari verso la nebbia. per la prima volta senza vincoli. senza orari. né timone. splash.

martedì 13 marzo 2012

L'attesa

Si rannicchia sul sedile, quasi chiudendo gli occhi, e gli viene in mente quando lo faceva da piccolo per non sentire le urla di sua madre, di suo padre, i litigi sulla rampa delle scale, a mezzo piano dal loro appartamento, in quel rallentamento in cui la rabbia prolunga fino all'infinito gli ultimi gradini. La pioggia aumenta di intensità. Batte sul lunotto posteriore, che ha il suono di un Teponazli, e la situazione per una volta sembra quella giusta. Aspetta. L'acqua si trasforma in piccoli e aguzzi granuli di ghiaccio. Il tintinnio, il crepitio, la scarica evolvono. Il piccolo mezzo scomodo sembra sciabordare. Il ticchettio si sovrappone ai secondi che marciano a ranghi serrati. Affondano. L'uomo ha perso di vista il suo obiettivo, per un momento. Si affaccia, guarda intorno, si rende conto dello scorrere incessante dei minuti. Il soggetto ha lasciato casa madre. Si è dileguato sotto i suoi occhi disattenti. Laschi. Glielo avevano detto che solo in teoria ogni uomo può assumere diverse identità. Che la vendetta ha bisogno di professionisti. E di concentrazione. L'uomo scende dalla macchina. Mette a nudo il suo piano. Confessa. Si palesa; non ha più nulla da perdere. è a quel punto che una mano gli serra improvvisamente naso e bocca. La difficoltà a respirare non è niente di fronte all'acqua che cola cinica tra le fessure e gli scivola in gola e nella trachea. La tosse si impadronisce di lui e l'acuto prende forma in una stilettata dritta sul nervo sciatico. Il flash infuocato abbaglia la notte umida, acceca, assorda, avvampa. L'uomo si ritrova in ginocchio. Un torrente scorre lungo l'asfalto impermeabile degli anni '80. Carponi, l'uomo si avvia verso la portiera che si apre di botto, colpendolo più volte sulla tempia e facendolo rotolare nel mezzo di un gorgo. La fine è vicina. Imprevista, forse opposta al piano originario. Avesse ascoltato i consigli, ora avrebbe solo un torto da recriminare. Con certi ceffi, alzare le braccia, ingoiare è l'unica strategia. Facci caso, gli aveva detto suo fratello, se la prendono sempre con chi ha paura di perdere quel poco che possiede. I piccolo borghesi con sogni in miniatura. Loro no, hanno tutto e sembrano snobbarlo. Come se potessero farne a meno. Giocatori d'azzardo. Morti che camminano. Tump, tump. La dimostrazione di forza continua. Ora se la prendono con il suo ventre, l'addome, il mento, la faccia, la schiena, un piede che prende una piega anomala... L'uomo beve, assapora quel liquido terragno, minerale, come per trovare una sensazione alternativa, ritornare a una percezione reale. Il dolore è passato. Ha superato la soglia. Ora è entrato nel campo della sopravvivenza. Due sorsi. E un grande menhir chiude la notte con una rullata finale. L'uomo e il suo piano sgangherato scivolano via tra le onde di un breve temporale estivo.

domenica 11 marzo 2012

conservare


C'è un che di masochistico e di negazionistico in chi vorrebbe opporsi al normale fluire del corso della storia, con i suoi apprendimenti, le sue prove ed errori, i suoi cambiamenti, ripiegamenti, le sue strategie di sopravvivenza, quella selezione che è più una meritocrazia istintuale, l'evitamento delle ripetizioni, che si può vedere come progresso o come mania di cambiamento o solo ricerca degli effetti migliori; c'è qualcosa di insalubre nel voler rendere statico ciò che non può fermarsi, come gli squali per non soffocare, una ripulsa per la novità e un'accidia, pigra e apatica raffigurazione di un mondo che si vuole relegato alla ripetizione coatta. C'è un disegno mortifero in questo. E c'è la vergogna di chi vuole nascondere a se stesso la propria diversità e unicità di individuo. La conservazione è una lotta impari contro l'entropia e il decadimento di atti, oggetti, prassi, lingue, costumi, esseri viventi. Ha un limite temporale, ma nel breve attecchisce e fa molti danni.

sabato 10 marzo 2012

Limiti

posti, impostano. 
omessi, sbandano.



Verecondie

Le due V del nostro percorso narrativo, Vendetta e Vergogna. Desiderio di rivalsa, di riscatto, di remunerazione da una parte e il rispetto e il mascheramento (vereor e shame, le due componenti) dall'altra. Una vergogna che può mutare in senso di colpa se mira a un obiettivo fuori fuoco, alla soppressione dell'oggetto immotivata. Le due V ci dicono che stiamo camminando su un binario a scartamento ridotto. Che le distanze tra le parallele rischiano di incontrarsi molto prima dell'infinito. Che c'è un rischio. L'incartamento. La chiusura. Le due V, VV, formano un angolo doppio, un doppio vicolo cieco, una freccia, un cuneo al di fuori del quale c'è l'agognata e sperata soluzione di rinascita.
Non lasciamoci ingannare, non è la Vergogna a impedire la Vendetta, quanto il senso di colpa anticipato, un rigore morale introiettato che guida le nostre azioni e che vigila su tutto ciò che non avremmo la forza o l'autostima di sopportare... il peso di responsabilità troppo più grandi di noi... 
La vergogna è uno smascheramento. Un'improvviso varco che mostra la vera natura dell'umano. Quello che teniamo ben truccato, trasformato,  costruendo barriere e muri, può rivelarsi per quello che è, e dare colpi mortali alla nostra autostima. Per questo, ogni azione di rivalsa, ogni rivincita, non deve mai lasciare i binari che scorrono lungo la strada dell'accettabile e del lecito. Qui gli appunti si fermano. Per adesso.

venerdì 9 marzo 2012

Vita

se ne sente il bisogno, vita, sapori di gemme colorate, rantoli di animali in calore, abusi di idee, estremi intoccabili, languore, fame di virtù e inappetenza improvvisa. Il guado lacustre, la formalina, il grigio sacerdote melanconico e stanco, il velcro, la cantina ammuffita. Il buttero e la strada di campagna. L'onda magnetica, il gallo alle 4 e mezzo, sole che brilla sul pianale di rugiada, gli sci, la risalita, il verdissimo crinale mezzo innevato, la rocca che affiora, l'immersione, il fondale a 50 metri. ampi gesti, respiri profondi, saltimbanchi, tavolate ricolme, baccanali, chiuse, letture d'un fiato, bulbi di narciso. vita.

lunedì 5 marzo 2012

Ho perso gli aggettivi

mi sono sfuggiti via, svaniti, in modo incomprensibile. ne usavo con generosità, senza badare a sprechi, senza centellinarli. mi piacevano. li trovavo e li riprovavo. creavano l'atmosfera che mi serviva, che mi sembrava... beh, avevano quel non so che, sapevano di perfezione. sono passati anni, decine di anni in cui ho perfezionato la mia triade, il susseguirsi degli aggettivi in crescendo o in calando, ma sempre in funzione dell'effetto da creare alla fine. ne ho fatto quasi una regola, mi sono spesso sperticato in articolazioni e fluenze, ho colorato e appesantito i periodi per caratterizzare, giudicare, evidenziare, per farmi personaggio all'interno dell'intreccio. ma sapevo fin dall'inizio che mi avrebbero tradito, che li avrei persi. come si perde qualcosa di cui si è abusato senza darsi limiti. e ora... li ho persi tutti. non mi vengono più. il significato è sfilato via. ogni essenza, ogni nouance si è dileguata. restano dei participi, gli avverbi, e una circonvoluzione della grammatica che si insinua zigzadango con un lieve eccesso di infiniti. e poco altro. un finale senza definizioni. frasi che non trovano il modo di determinare e di indicare. descrizioni prive di connotazioni. un distacco che non è da me. non mi riconosco più. non sono io. me. stesso. senza aggettivi non riesco a farmi narrazione. e ci dovrò fare l'abitudine. ma è anche una reazione, che capisco, alla corsa all'iperbole, alla retorica dell'affabulazione dei politici, giornalisti, cronisti, gente della tivù, che parla rapidamente, senza pensare, senza pesare. è questo abuso che mi ha soggiogato e ha inaridito la mia vena dedicata alla triade. la ripetizione che chiude in una forma a scalini. scrivere senza aggettivi ti dà la stessa sensazione di lasciare un panino a metà. senza finirlo. senti di aver qualcosa da concludere. e poi ti colpisce l'eco di una somiglianza, di una reminiscenza... sarà vero?

domenica 4 marzo 2012

Vindicta

L'aria si fa lieve, rarefatta, leggera, fredda di una lentezza irrigidita; l'uomo siede comodamente, allunga le gambe e si stira sbadigliando lievemente contratto, il respiro si ferma all'altezza dello sterno crea una bolla che si allarga verso il ventricolo destro; gli occhi mimano una ricerca affannosa. L'uomo non parla. Ai lati della bocca un increspatura, quasi a formare un sorriso che assomiglia a una consapevolezza. I secondi scorrono pachidermici. Battono rumorosi un tempo che non ha più motivo di esistere. I piedi dell'uomo cadono dal tavolino ricolmo di cartaccia. Annunci. Mappe. Numeri di telefono. Fotografie. Giornali. La ricerca non ha dato esito. Il futuro si riempie di ipotesi mai verificate. Si alza, ci prova; non gli basta, non è stanco di vivere. Vuole guardarlo in faccia, studiarlo, capirlo. E tornare al via. Sì, che può, farlo; arrivato a questo punto non c'è nulla che possa impedirglielo. Il confine tra esistere e scomparire è stato valicato. Non era nei suoi piani. Aveva fatto di tutto per restare nel suo bozzolo protettivo. Ma i piani sembrano fatti per essere traditi. Suo malgrado si ritrova in mezzo al guado e non può far altro che nuotare per arrivare alla riva opposta. L'hanno svegliato, l'hanno costretto a cambiare prospettive. E, adesso, è il momento di prendere un bel respiro e placare l'aritmia. Sarà il suo boia, colui che rende il servigio ultimo alla giustizia, a fargli capire cosa c'è dopo; cosa sarà questo dopo che non aveva previsto. E per far questo... lo aspetterà sotto casa.

La nuova visione parallela

Parto con una nuova avventura. Dopo due piattaforme scomparse che hanno fagocitato i miei contenuti. Come quando l'hard disk del computer salta e si perdono tutte le cartelle e le email non salvate altrove. 

Ti aspetto sotto casa è un esperimento narrativo. Una valvola di sfogo. Una pustola. Un fiore che vuole sbocciare a tutti i costi sul bordo di un'autostrada. Le forze istintive  della conservazione e della sperimentazione che si alleano. 
Tiaspettosottocasa è la voglia di giustizia. La ricerca di un equilibrio spesso difficile. La narrazione di una esperienza che non vuole farsi diario.
Come tutti gli esperimenti, procederà per prove ed errori. E ne farà il suo patrimonio genetico. 

Si parte.